Da Visioni carbonare, una recensione che mi è tornata in mente mentre assistevo al Roland Garros...
«John McEnroe è un mito». Parole che devono essere state sulle labbra di un incalcolabile numero di appassionati dello sport con la racchetta. Ma non solo. McEnroe è un mito anche e soprattutto nel senso classico della parola. I suoi incontri a Wimbledon contro Borg, agli inizi degli anni ’80, sono diventati più che proverbiali, hanno attraversato e segnato quasi tre decenni e creato un nuovo immaginario, un nuovo mondo che esiste anche lontano dalla rete e dal campo: McEnroe, il suo aspetto da pestifero (per non dire dell’atteggiamento!), il suo febbrile desiderio di correre incontro alle fucilate uscite dalle corde dell’imperturbabile Bjorn, la sua racchetta di legno vibrare una carezza nell’aria e compiere l’incantesimo affettando la palla e facendola morire appena di là dalla rete. Per la mia generazione queste evocazioni, proprio come quelle di Italia-Germania 4-3, quelle del Mundial ’82, quelle di Ali-Foreman a Kinshasa e chissà quante altre, narrano di un mondo che non abbiamo visto e sono pura mitologia; fanno parte della nostra crescita, sia che provengano dalle parole nostalgiche dei genitori intorno ad un tavolo o dalle voci, di nuovo appassionate al ricordo, dei Tommasi&Clerici di turno o, ancora, dalle pagine frizzanti ma intense di questo piccolo capolavoro di Tim Adams.
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